E’ capitato a molti di noi di assistere alla presentazione degli ultimi dati Osmed, nel luglio uscente scorso. L’interesse relativo ai dati è stato fortemente perturbato da un illustre relatore, che ha confutato l’utilità della terapia antiipertensiva ed anzi suggerito la sua inefficacia nel ridurre la morbilità e mortalità cardiovascolari, a fronte per di più di un consistente rischio di manifestare eventi avversi quali ipotensione oppure disturbi elettrolitici.
Tale sorprendente ed innovativa teoria – degna di quella sul sistema eliocentrico di Copernico – è stata postulata dall’eccellente oratore mostrando all’uditorio, composto come è facile comprendere anche da chi poi è chiamato a decidere su come e dove indirizzare l’opera del sistema sanitario nazionale, un solo ed unico lavoro: quello di Sheppard JP et al.. Il corposissimo resto dello scibile medico in materia – forse perché in contrasto totale con Sheppard et al – è stato ignorato dall’illustre oratore, come il celeberrimo “non pervenuto” del colonnello Bernacca.
Per gli antichi retori, le cinque fasi da costruire per convincere un uditorio fondavano spesso sulla pre-selezione di un singolo “punto di forza” ripetuto all’infinito (“e Bruto è uomo d’onore”…….). Ne è dimostrazione il celeberrimo caso dell’Avvocato Cochran: in barba ad ogni logica e ad ogni altra prova, poiché il presunto assassino avrebbe dovuto usare un paio di guanti trovati sulla scena del crimine, ma questi guanti erano troppo piccoli per la mano dell’imputato, tuonò “non gli calzano, siete costretti ad assolverlo”. Come tutti sanno: riuscì nel suo intento.
Orbene, l’assonanza tra Cochran e Cochrane è voluta. Di più, l’eccellente espositore del bel lavoro di Sheppard et al. ha operato ancora meglio, per convincere l’uditorio, dell’Avvocato Cochran. Il legale infatti, non ignorò affatto tutti i dati a suo sfavore, ma affondò il colpo mostrando retoricamente alla giuria il guanto troppo piccolo. L’ottimo oratore che ha esposto il lavoro di Sheppard et al., invece, come Vi anticipavo ha fatto molto di più e molto meglio: ha parlato per diversi minuti solo ed esclusivamente di “quel” lavoro. Tutto il resto – diversamente da quanto fatto sia da Cochran che dalla Cochrane – è stato inghiottito dal buco nero del silenzio: non è mai esistito e, se è esistito, non mi interessa parlarne e non ne parlo.
Orbene ancora, per un ricercatore di base, per un ricercatore clinico e per un medico, la tecnica retorica di Cochran è deleteria, ma quella operata durante l’esposizione dei dati Osmed – non ho alcun dubbio: in totale ed ottima fede – è ancor peggio. Il cherry picking, infatti, è un errore logico che funziona perfettamente nelle aule dei tribunali, in un film e/o in un talk show, ma nella ricerca clinica porta involontariamente, ma ineludibilmente a costruire il terrapiattismo, a credere nella dieta dei 120 anni, a proporre ai teledipendenti l’assunzione quotidiana di una cofana di pastasciutta come rimedio salvifico al cancro ed alle malattie cardiovascolari.
Non è chi non veda, infatti, come l’interessante ed ottimo studio di Sheppard et al sia un singolo ed isolato studio, non di intervento, non prospettico e non randomizzato. Esso è stato fatto analizzando a ritroso il Clinical Practice Research Datalink, per un periodo di pochi anni, sempre e solo relativamente al paziente iperteso caratterizzato da un rischio cardiovascolare molto basso. Ovviamente, in una popolazione di questo tipo gli eventuali eventi avversi potranno comparire anche dopo poche ore dall’inizio della terapia, mentre il beneficio necessiterà di molto più che pochi anni per apparire.
D’altra parte, una vera miriade di dati epidemiologici e di studi clinici controllati, nei quali i pazienti erano randomizzati alla terapia o placebo per equalizzare le caratteristiche cliniche di partenza, anche condotti da autorità governative testimoniano il perfetto contrario di quanto indicato dallo studio di Sheppard et al: la terapia antiipertensiva riduce in modo spiccato morbilità e mortalità cardiovascolari ed è tanto costo-efficace quanto sostanzialmente ben tollerata. Ciò e vero anche negli ipertesi di grado 1 a rischio basso-moderato (e cioè in quelli a cui faceva riferimento chi ha esposto i dati) nei quali l’evidenza è stata ottenuta sia in studi di intervento randomizzati che in meta-analisi di studi randomizzati. Ciò è talmente vero che tanto le Linee Guida sull’Ipertensione Arteriosa pubblicate negli USA (American College of Cardiology ed American Heart Association) quanto le Linee Guida Europee (Società Europea di Cardiologia e Società Europea per l’Ipertensione Arteriosa) raccomandano con il massimo livello di evidenza la terapia antiipertensiva – sia non farmacologica che farmacologica – in tutti i pazienti ipertesi, inclusi quelli con pressioni sistoliche tra 150 e 140mmHg. Questo indipendentemente dal loro livello di rischio cardiovascolare. L’evidenza è così incontrovertibile che le Linee Guida Europee sono state confermate dall’ultimo e più autorevole firmatario (Richard McManus) dell’articolo di Sheppard et al.
In considerazione di quanto sopra, la SIIA è estremamente preoccupata che chiunque possa essere indotto a pensare – in totale ed ottima fede – che prevenzione e cura dell’ipertensione arteriosa e/o di tutti gli altri fattori di rischio cardiovascolare siano sostanzialmente inutili. La realtà scientifica e la pratica clinica quotidiana testimoniano con la forza dell’evidenza e del buon senso che è vero l’esatto contrario.
Dobbiamo quindi tutti lottare per favorire prevenzione e cura dell’ipertensione arteriosa ed operare con la forza della nostra cultura contro questo terrapiattismo d’antan. Ogni dubbio è lecito sempre, soprattutto quando si parla di ricerca, anche quindi di ricerca clinica: il dubbio va favorito e nulla deve essere mai dato per scontato. Come è scritto nell’Amleto: “dubita che la verità sia mentitrice”, poiché quello che oggi sembra un’eresia, domani potrebbe corrispondere ad una realtà scontata. Laddove, tuttavia, esistano evidenze incontrovertibili e/o ci sia di mezzo la prevenzione e cura di malattie invalidanti e/o fatali, è sempre doveroso porsi “il dubbio sui propri dubbi”. Prima di fare – certo, ripeto: in completa buona fede – cherry picking tra tutte le evidenze disponibili, esponendo un ottimo, ma unico lavoro e non presentando invece nemmeno uno tra la miriade di studi clinici controllati; in contrasto totale con il precedente: si deve riflettere. Si deve, soprattutto, evitare di diffondere involontariamente notizie non vere, potenzialmente nocive e palesemente destituite di fondamento scientifico.
Chiedo scusa, a proposito di quanto sopra, se ho usato un tono a volte ironico in questo scritto: non è mia intenzione irridere nessuno ed ho il massimo rispetto per tutti, anche per chi ha palesi pregiudizi. Di più: coltivo l’arte del dubbio e la sostengo. Tuttavia, ho usato volutamente questo approccio perché come clinico e Vostro Presidente in carica sono molto spaventato dall’aggressione galoppante operata dai negazionisti della cultura, dell’Accademia e del pacato dibattito in ambito medico. E’ così che si insinuano artificiosamente dubbi inconsistenti e si mette a repentaglio tanto il libero fluire delle idee quanto l’esito finale che più di tutti ci sta a cuore: la salute dei cittadini.
Prof. Claudio Ferri
Presidente SIIA